lunedì 26 ottobre 2009

"La via della montagna un cammino possibile" di Goretta Traverso


«Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro vi sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto tutto me stesso, nel bene e nel male». Renato Casarotto

Il K2 si innalza come un ciclopico cristallo nel cuore della catena del Karakorum. Piramide perfetta, sembra l'opera di un artista che, impegnato nella sua meravigliosa fatica, mai conobbe attimi di cedimento creativo. 
Il gigante di roccia e ghiaccio è un capolavoro, una scultura in cui la geniale forma complessiva è sostenuta da una continua attenzione ai particolari. A nord il monte dei monti par quasi aggredire il cielo, mentre a sud si innalza dai ghiacciai come a voler dominare la terra. Ma più sovrano che mai appare dal Colle Est, con l'intero ghiacciaio Baltoro ai suoi piedi e il famoso pilastro Sud -Sudovest chiamato anche Magic Line (linea magica).


Una sagoma umana procede verso l'alto seguendo questa via ideale, la “linea magica” che, pur mirabile, è soltanto figura di un archetipo. La superba cresta, in altre parole, altro non è che il simbolo dell'eterno cammino dell'uomo. 
Perché lassù, nella solitudine estrema che ricorda le lunghe orazioni dei monaci tibetani, ogni istante raggiunge pienezza di significato e di necessità: il pilastro Sud-ovest del Chogorì (K2), è simile alla scala del sogno di Giacobbe che «poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Genesi 28, 12) e lungo di essa il viandante solitario «supera i bisogni, diventa spirito, si rasserena. Ad un tratto, però, le tremende forze della natura si scatenano e costringono il piccolo grande uomo a tornare sui propri passi: è il 16 luglio 1986 e la rinuncia, questa volta, appare davvero definitiva. La discesa è furiosa, velocissima.
E il suo ultimo capitolo, lungo il tratto di ghiacciaio immediatamente precedente la morena, si trasforma inaspettatamente nella pagina estrema di una vita, dell'esistenza di uno dei più puri e meno celebrati alpinisti di ogni epoca: il vicentino Renato Casarotto. *




Quello che cerchiamo quando andiamo in montagna non è la stessa cosa che cercava anche Renato Casarotto ?
Non solo scampo dall’oppressione della città, ma evasione dalla vita di tutti i giorni, ricerca del nuovo e dell’imponderabile, la possibilità di misurarci con i nostri limiti.
Amiamo la montagna visceralmente perché ne amiamo le alte vette.
Più sono alte, più la voglia di estensione diventa irresistibile.
Acute d’incertezza, diventano per coloro che le frequentano imponderabile unicità di percorso.

Certo non possiamo dire di cercare la tragedia o il pericolo estremo, ma a volte lo si corteggia, sfiorando i nostri limiti e se capita di sottovalutarli, o se interviene l’ imprevisto, si entra “nella zona della morte”.
Invisibile ad occhi inesperti ma a volte drammaticamente vicina, anche a quote turistiche.

Vogliamo fare una escursione, salire una vetta?
Allora dobbiamo imparare il senso del limite.
Dobbiamo sapere che una cima non si può “conquistare”, che le montagne bisogna salirle e poi scenderle, e scendere spesso costa più fatica.
Difficile, in una civiltà che ripete “Tu puoi”, “tu vali”, “tu meriti”, per farci compulsivamente consumare emozioni, oggetti, esperienze.
Sempre più spesso mi capita di conoscere persone che non salgono più una vetta solo per stessi, come ha sempre fatto Renato Casarotto.
Oramai si scalano le alte vette per poterlo medializzare, per mettere una tacca sul fucile, per una gara che non ha alcun senso.

Vogliamo il rischio?
La montagna offre, in questo senso, pane per i nostri denti.
Lassù troviamo ampie riserve di entusiasmo e di adrenalina. Ma questo non ci basta e allora vogliamo andare sempre più in là, verso immaginarie colonne d’Ercole. In un viaggio che diventa sempre più rischioso, perché un’infinità di cose non dipendono da noi e dovremmo tenerne conto: il passo falso su un sentiero, la tempesta che si addensa quando siamo lontani da un riparo, il freddo che scende al calar del sole.
Ma dovremmo sapere che stanno dentro di noi, non fuori.
Purtroppo la montagna insegna, ma ha pochi allievi: pochi sanno che calma le ansie, che aiuta a distillare i pensieri, che ti fa imparare l’aiuto reciproco. In cambio però vuole qualcosa: fatica, silenzio, senso del limite.


Davanti a un cielo stellato, a un ghiacciaio, ad una piramide perfetta come il K2, ci si può anche commuovere, ma se non riusciamo a capire che è anche un guardare dentro noi stessi, accettando l’inaccettabile, accettando se stessi come una piccola parte di un Tutto, si può facilmente avvertire lo sgomento per un mondo freddo e lontano, assurdamente indifferente alla nostra piccola esistenza.
E’ il nostro sguardo, che le dà valore: la montagna ci migliora quando capiamo che è nutrimento dello spirito, quando risveglia ciò che di migliore è latente in noi. Quando esalta le nostre capacità di sopportazione, di sacrificio e di tolleranza, quando ci ricorda il coraggio, l’umiltà e la dignità.
Quando, eliminate le incrostazioni del nostro Ego, riesce a unirci al Cielo, a quella scintilla divina che dimora in ognuno di noi.


* testo di Carlo Caccia 
le foto sono tratte dal sito di Karl Unterkircher 



2 commenti:

Anonimo ha detto...

.. alcune volte non si riesce a capire cosa spinge l'uomo a scalare una montagna e a rischiare la propria vita..
però d'altra parte pensi alle emozioni che questa persona prova e senti dentro di te un senso di "invidia".. e speri anche tu che, in un'ascesa verso un semplice rifugio seguendo un sentiero di montagna, possa provare una minima parte di quelle emozioni..
Ciao, Aly

Giovanni ha detto...

che pensieri sublimi in questo post!

ciao e buona montagna