domenica 28 novembre 2010

La semantica dell'alpinismo: ...seconda parte

Naturalmente c'è anche il  'piacere'  fisico dell’alpinismo.

Mano a mano che saliamo una montagna diventiamo profondamente consapevoli del nostro corpo.
Sentiamo di avere braccia e gambe doloranti e il respiro troppo debole rispetto alla fatica che stiamo facendo.
E tutte le cellule sembrano elemosinare più ossigeno di quanto riusciamo a dare.
E poi abbiamo la precisa sensazione di riuscire a trasformare il cibo in carburante. Un pezzo di cioccolato, o un mix sapientemente equilibrato di frutta secca, dopo ore di salita continua, si manifesta immediatamente come pura energia.
E ti fa capire quanto sia diretta la connessione tra il cibo e il nostro corpo.

Tutti i sensi si acuiscono ma soprattutto i sapori ed il gusto diventano esplosivi; così tutto diventa delizioso o rivoltante.

A sostenere questa attività estesa che permette al nostro corpo un cambiamento inaspettato, questo sforzo continuo che sembra non finire mai, c'è il silenzio surreale della nostra mente che, liberata dai mille pensieri quotidiani, sorregge e dirige il nostro corpo trasformando la fatica in adrenalina attraverso una rinnovata volontà che si impone alla fatica, alla paura, alla voce dell’istinto umano di prudenza e di conservazione..

Perché saliamo ?

Vi è la risposta ovvia che fa riferimento alla selvaggia bellezza della natura e dei panorami che si aprono di fronte a noi, alla possibilità di metterci alla prova - e in un certo verso, di vivere un'avventura .
Ma meno ovvi sono sicuramente gli aspetti meditativi e fisici: la pura, penetrante consapevolezza e la gioia di sentirci vivi in ogni passo che facciamo verso il nostro obiettivo.

Così scrive R. Solnit: "Il ritmo del passo genera una specie di ritmo del pensiero, e il tragitto attraverso un paesaggio echeggia o stimola il tragitto attraverso un corso di pensieri. Il che crea tra percorso interno e percorso esterno una strana consonanza che suggerisce come la mente sia essa stessa un paesaggio di generi e che il camminare sia un mezzo per attraversarlo."

Ma non si può restare sempre in vetta, bisogna ridiscendere…
A che pro, allora? .....si chiede lo scrittore filosofo R. Daumal.

Ecco: "....l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto […]
Si sale, si vede.
Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto.
Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.
Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere
."


Se riusciamo a portare con noi, quando scendiamo, anche una sola scheggia di quel sentimento e di quella conoscenza che abbiamo avvertito in vetta e applicarlo alla vita di ogni giorno, allora questa, anche e solamente da sola, è una ragione sufficiente per salire ancora in alto.

Namasté

3 commenti:

chaill ha detto...

Si può salire per dimenticare, anche se per poco, quello che lasci alle tue spalle?
E lasciare i pensieri nella propria scia, come una cicatrice?

Si trovano risposte?

mario ha detto...

@chaillurun: certamente quando si sale di dimentica quello che sta in basso proprio perché si è "da soli" e il camminare allontana dal proprio cuore pensieri e problemi fino al silenzio.
E così i pensieri scivolano lentamente dietro di te.
sta a te scegliere di recidere temporaneamente il legame che ti lega a loro per poter volare verso la cima e il cielo.

chaill ha detto...

Quando, e se posso, mi piace camminare per percorsi che si inoltrano dentro i boschi... non all'aperto.
Così mi sento isolata ma allo stesso tempo protetta... ma nel silenzio mi sembra che a volte i pensieri si facciano più insistenti ... tandale allora trovo l'unico rimedio ...