domenica 30 giugno 2013

Le malghe del Lagorai: come perdere un patrimonio

Il Lagorai dal punto di vista geografico viene raffigurato come una catena montuosa lunga 50 km che rappresenta la spina dorsale del Trentino orientale, con la Val di Cembra a Ovest, la Val di Fiemme a Nord, la Val Cismon a Est e la Valsugana a Sud. Il Lagorai quale area culturale è però più ristretto e coincide con la Valsugana centrale e le profonde valli (Calamento e Campelle) che si spingono a Nord raggiungendo la cresta della catena.

La presenza di aree con connotati culturali molto diversi tra di loro giustifica sicuramente questa delimitazione. Pensiamo, ad esempio, alla Valle dei Mocheni nota per essere un'isola linguistica di origine nord europea e che è riuscita a conservare intatte tradizioni e usanze culturalmente molto distanti da quelle in uso nell'area del Tesino e del Vanoi che chiudono a est la catena del Lagorai.

Non ci sono montagne spettacolari, ma boschi e laghi e soprattutto ciò che accomuna tutte le aree di questa catena montuosa, anche culturalmente diverse tra di loro, è quello di essere la zona del Trentino con la maggior presenza di malghe.



Oggi le malghe ristrutturate o recuperate sono solo una parte e quelle rimaste in attività sono ancora meno, le altre sono in rovina e molte, pur ristrutturate, sono abbandonate.
Stringe il cuore entrare in qualche diroccata malga e leggere le scritte dei pastori sulle travi o vedere appeso ad una parete, tra masserizie varie, vecchi vestiti e attrezzi per fare il formaggio, un ultimo calendario di 30 anni fa.

Stringe ancora di più il cuore vedere malghe come quella del Montalon venire abbandonate e non essere più monticate perché i proprietari (i baroni Buffa, ora residenti a Padova) non ritengono economicamente conveniente recuperarla per l'alpeggio. Anche se la maggior parte delle malghe sono al giorno d'oggi di proprietà comunale alcune appartengono ancora alla famiglia Buffa di Castell'Alto (Telve).

I baroni Buffa dal XV secolo al XIX secolo sono stati i feudatari della zona. Rinunciarono alla giurisdizione nel 1825 ma conservarono i beni allodiali (di proprietà privata e alle dipendenze del castello). Ora  storia e tradizioni secolari si stanno perdendo nell'indifferenza generale, e non solo politica. Basti pensare che la "Libera Associazione Malghesi del Lagorai" ha perso nel giro di pochi anni la metà dei propri associati, passando da 9 malghe monticate alle attuali 5.

E mentre la montagna si arricchisce di case e baite, graziosamente ristrutturate dai residenti nei paesi del fondovalle, finalizzate ad assaporare nei weekend un angolo di paradiso, malghe e baite in quota vengono sempre più abbandonate e con loro usanze e tradizioni di una cultura che rimane tale solamente nelle feste di paese, nei depliants turistici e nei siti web.

Così oggi l' amministrazione provinciale spende milioni di euro per rotatorie, nuove strade, tunnel, capannoni, inutili centri polifunzionali e perfino per folli e demenziali progetti di nuovi impianti sciistici, senza che a nessuno degli amministratori venga il pur minimo pensiero di quante malghe potrebbero essere recuperate coi denari spesi, magari dotandole di adeguate strade di accesso per renderle economicamente funzionali e vantaggiose.

Bisogna sinceramente annotare come non tutte le amministrazioni comunali si siano comportate in maniera ottusa e conservativa nella gestione del territorio e delle malghe di proprietà. Un buon esempio di gestione ci viene sicuramente dal comune di Bieno che ha recentemente terminato di recuperare le malghe di proprietà (Rava di Sopra e Fierollo di Sopra e di Sotto) con una ristrutturazione, tenendo conto di tutte le prescrizioni urbanistiche e d’impatto ambientale che necessitano tali strutture in contesti montani, che ha previsto per ogni malga anche un locale adibito a bivacco.

Se non prevarrà l'idiozia di coloro che alcuni anni fa hanno lanciato l'idea di un "Lagorai selvaggio" che un marketing turistico-territoriale ruffiano cerca ancora in tutti i modi di far decollare. Se non vincerà il progetto di qualcuno che preferisce probabilmente che le ultime malghe vengano abbandonate in modo da spacciare questo territorio di millenaria cultura della malga per un'area wilderness, dove organizzare campi scuola e settimane di sopravvivenza dando in pasto ai visitatori i ruderi delle malghe abbandonate come trofeo di vittoria sulla antropizzazione del Lagorai.

Se si smetterà di pensare al Lagorai solo come al prossimo Parco da istituire. Allora e solo allora si potrà sperare di veder consolidata la consapevolezza tra gli addetti ai lavori, gli amministratori e le persone che frequentano la montagna, che le malghe del Lagorai, sono un patrimonio culturale prezioso che va difeso, qualche volta trasformato ma sempre mantenuto e finalizzato per una montagna vivibile e frequentabile.

martedì 25 giugno 2013

Malga Montalon: come perdere un patrimonio

Ne avevo già parlato ampiamente due anni fa prevedendo che con l'abbandono di Oswald, il malgaro che da Salorno monticava ogni anno la malga Montalon di prorietà della famiglia Buffa, avremmo perso non solamente un patrimonio umano per quello che lo stesso Oswald rappresentava, ma anche un tesoro culturale inestimabile sia dal punto di vista delle Terre Alte, sia per la qualità dei prodotti fatti nel rispetto delle tradizioni e delle usanze alpine.

la malga Montalon a luglio del 2006

Purtroppo è successo, ed ora leggo con dispiacere dal Cipputiblog  come sia evoluta questa storia.
Un altro pezzo di storia e di cultura del Lagorai che se ne va. Ne perdiamo tutti, anche se per ora  sembriamo non accorgerci di questa mancanza.

la malga Montalon a settembre 2012 (foto di Fausto Carlevaris)


Partenza: Rifugio Hotel SAT Lagorai (1.300 mt)
Arrivo: Malga Montalon  (1.866 mt)

Dislivello:  566 mt
Distanza: 4 km e 618 m
Tempo impiegato:  2 h

domenica 23 giugno 2013

Lagorai: Suerta - Cime di Saleri

L'idea era quella di fare un'escursione in una delle zone, secondo me, più paradisiache del Lagorai, e cioè le vaste estensioni sopra Malga Sette Selle con un meteo che si annunciava però, dopo tanti giorni di bel tempo, molto variabile con pioggie nel tardo pomeriggio. Con l’occasione volevo anche esplorare alcune zone che non avevo mai battuto, con la salita alla Cima Mendana (2148 m.).

Da Torcegno in Valsugana raggiungiamo Campestrini dove prendiamo la strada asfaltata che costeggia inizialmente boschi di castagni secolari per poi salire tra vecchi casolari e nuove ristrutturazioni in località Suerta a 1420 m. 
Dopo le ultime abitazioni lasciamo l'auto presso un piccolo spazio usato come parcheggio nei pressi della tabella CAI.


Sono le 9.00 ma per fortuna c'è ancora un po' di spazio per poter parcheggiare.
Calziamo gli scarponi, carichiamo lo zaino e ci incamminiamo seguendo la strada sterrata contrassegnata dal segnavia cai 312, tra i prati in fiore in cui predominano i colori del  bianco e del giallo.

Poco dopo incrociamo un'altra tabella senza numerazione e che indica il sentiero per malga Mendana che useremo per il ritorno. Nel frattempo la strada è finita ed ora il sentiero, dopo aver guadato un piccolo ma insidioso rio, si inerpica in modo assai ripido su per delle belle balze per circa 350 m di dislivello, passando a nord dell’impressionante e roccioso Monte Carli, con le sue pareti a strapiombo sulle impetuose cascate nel rivo sottoostante.

Dopo un'ora dalla partenza arriviamo nel magnifico e aperto vallone che prelude ai pianori prativi prima della Malga Sette Selle.
Costeggiamo il rio anziché il sentiero, che scorre infossato in una piccola gola punteggiata di rododendri in fiore,  così da poterci gustare dei bellissimi scorci con varie cascate.

Nei pressi dei ruderi di una vecchia malga, alcune marmotte curiose mettono fuori la testa dalle tane. La fioritura dei rododendri, quest'anno decisamente in ritardo, colora di rosso i pendii, mentre sono tantissime le orchidee rosa e gialle, che si possono osservare lungo il sentiero tra l'erba dei prati.

Dopo altri 40' camminando tra rivoli d'acqua e tane di marmotte raggiungiamo la Malga Sette Selle (m 1906), ubicata in una posizione unica ed invidiabile con un gran bel colpo d'occhio sulle cime Sassorotto e Sassorosso e verso la Valsugana e le cime a nord dell'Altopiano, ma rovinata dalla solita muraglia di macigni che ultimamente va molto di moda ma che sarebbe stata impossibile al tempo dei pastori senza ruspe.

Tra improperi inenarrabili e fischi di richiamo il malgaro sta tentando in tutti i modi di richiamare l'attenzione del figlio per fare spostare un branco di pezzate rosse in una zona diversa di pascolo. Anche il cielo sembra infastidito da tutto questo vociare che rompe un silenzio accompagnato solo dai brevi fischi delle mermotte e dallo scampanio delle mucche al pascolo.

Dopo una brevissima pausa proseguiamo brevemente per la strada sterrata/sentiero 312 con il Sasso Rotto e cima Sette Selle finalmente libere da cupi nubi basse che finora non ci avevano permesso la loro splendida visione. Ma questi pensieri positivi sono subito allontanati dalla visione di altra bruttura. Il “canale”, un rigagnolo d'acqua, del rio affluente del Mendana regimentato ciclopicamente!

Fatti pochi passi incontriamo un’orrida presa d’acqua in lamiera a vista con recinto di pali e reti in ferro. A questo punto abbandoniamo infastiditi il sentiero domandandoci del perché simili brutture in un luogo così bello?  Ma tantè, non siamo in Alto Adige, ma in Trentino e le stupidità silvo-forestali non sono ancora finite, oggi.

Ci dirigiamo, dunque, con percorso libero, verso quella che in quel momento, forse confuso dalle immagini precedenti, pensavo essere forcella Mendana, e che invece si rivelerà essere una innominata forcella tra le Cime di Saleri e Cima Mendana. Così attraversiamo la zona di Saleri, con magnifiche spianate erbose alternate a distese di macigni.  Ci sono dei tratti paludosi,  e poi prati alpini con delle fioriture incredibili di anemone alpina (Pulsatilla alpina ).

Camminiamo in completa solitudine, non ci sono sentieri, ma essendo una zona molto aperta, non abbiamo paura di smarrirci. Ed è forse per questa troppa sicurezza che alla fine della salita ci accorgiamo di non essere a forcella Mendana bensì in una anonima forcella a lato delle Cime di Salieri. Poco male, con un altro piccolo sforzo saliamo fino in vetta (2180 m.) Davanti a noi la vastissima Busa della Pesa con il Lago d'Ezze e poco più in basso l'imbuto della Val d'Ezze con l'omonima Malga (1956 m.) trasformata in agritur.

La struttura dotata di 30 posti letto, un locale cucina, un locale ricreativo, tre bagni, due docce,  può essere utilizzata richiedendo le chiavi al comune di Telve di Sopra. Purtroppo capita qualche volta di non ricevere risposta e così spesso finisce per non essere utilizzata. Per il ritorno abbiamo seguito un sentierino che con lungo traverso ci ha condotti fino ad incrociare il sentiero (che abbiamo sbagliato all'andata)  segnalato da un cartello dell'ippovia del Trentino Orientale che porta  alla forcella Mendana.

Da qui ci siamo calati nell'ampio vallone (nessuna traccia ma facile) fino ad intercettare la strada forestale che da Malga Sette Selle conduce a Malga Mendana  (1853 m.) (nella foto sullo sfondo, sopra la malga Mendana, il Monte Ciste).
A destra prima della malga intercettiamo in sentiero senza numerazione cai che scende lungo il versante orografico sinistro del Rio Mendana.

Il sentiero è tenuto sufficientemente bene anche se non esente in qualche tratto da franosità che lo rende un percorso da effettuare in discesa con la dovuta cautela ed attenzione fino ai prati delle prime case di Suerta  punteggiati di milioni di fiori gialli e bianchi (giglio bianco - Paradisea liliastrum ), di una bellezza quasi commovente. Mi fermo a fare un paio di foto, e mentre rivedo il vallone di salita le immagini mi riportano ad un passato remoto.

Mappa dell'escursione



quota partenza: 1.440 mt  Suerta
quota max: 2.180 mt cima di Saleri
dislivello complessivo: 813 m.
Tempo totale: 5 ore
distanza percorsa:7 km e 500 m

 




Colori e fiori dell'escursione:
anemone alpina - genziana
orchidea rosa - orchidea gialla

G
M
T
Y
La funzione vocale è limitata a 200 caratteri

sabato 8 giugno 2013

Itinerari nella Venezia minore: Cannaregio

Il meteo non è dei migliori, ma il desiderio di fare una capatina fino a Venezia è troppo forte.
E allora, parcheggiata l'auto nei pressi di Punta Sabbioni, mi avvio al pontile per imbarcarmi sulla linea di navigazione 14 che in meno di mezz'ora mi porta al Lido di Venezia. Dal nuovo Terminal ACTV Santa Maria Elisabetta del Lido si ha solo l'imbarazzo della scelta per raggiungere Venezia.

Ma non voglio ritrovarmi nel caos e nella confusione che regnano sovrani a Piazza San Marco o lungo gli imbarcaderi del Canal Grande. Per questo scelgo la nuova linea di navigazione 5.2 che, passando a nord della Darsena e navigando lungo il canale delle Fondamenta Nuove entra a Venezia per il canale di Cannaregio, dove scendo alla fermata del ponte dei Tre Archi.

Il Sestiere di Cannaregio è il sestiere più esteso della città dopo Castello ed il più popolato. Cannaregio infatti occupa quasi per intero tutta la parte della città a nord del Canal Grande, estendendosi dalla stazione ferroviaria fino a Castello. Questo sestiere, molto amato dai Veneziani, mostra due volti.

Mentre a sud le zone confinanti con il Canal Grande  si concedono alla frenesia dei commerci e delle attività produttive finalizzate agli stranieri, camminando tra calli e campielli della parte a nord-est si apre davanti a noi un mondo dove il tempo sembra essersi fermato.

Campo Sant'Alvise e la chiesa della Madonna dell'Orto, le rive del canale collegate dal ponte dei Tre Archi, le fondamenta dei Mori,  il Ghetto, il più antico al mondo e riconoscibile per le sue abitazioni fino a nove piani. Qui, i canali si allargano e i fili su cui asciugano i panni sembrano tanti festoni colorati, mentre tra le calli e i canali si ode in sottofondo, come una melodia, il ritmo cantilenante del dialetto veneziano.

Cannaregio: il Ghetto della memoria

Una volta sceso alla fermata dei Tre Archi percorro verso est le Fondamenta Cannaregio fino all'osteria Gam Gam dove giro a sinistra verso il Ghetto Nuovo.
Forse pochi di noi sanno che la parola "Ghetto"  ha una derivazione tipicamente veneziana. Sembra derivi dal getàr (fondere), facendo riferimento alle fonderie presenti nella zona prima del decreto del 1516 che istituiva il Ghetto.

Le comunità ebraiche a Venezia furono numerose fin dal Medioevo, ma solo nel Cinquecento furono ammassate e rinchiuse in quest'isola, all'interno di Venezia, chiamata col nome della fonderia che vi operava. 
Ghetto, deriva infatti dal veneto "Gheto" (con la G dura) che stava proprio ad indicare la fonderia di rame di Cannaregio: questa l'origine banale di una parola che ebbe il destino di entrare nella Storia con un bagaglio enorme di intolleranza e di dolore.

I motivi che hanno indotto Venezia a isolare gli ebrei erano di tipo economico e sociale. Un isolamento che durò fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Il ghetto ebraico raggiunse il picco di popolazione nel 1600 con 5000 abitanti; la presenza di tante persone in uno spazio delimitato costrinse la Serenissima a far frazionare le stanze delle case con tramezzi di legno e ad elevare gli edifici fino a raggiungere nove piani, dando origine alle case più alte di Venezia

Di certo è un luogo che ha un fascino particolare, oltre ad essere frequentato molto poco dai turisti, con il suo campo arioso, solare, alberato con i bambini che si divertono a giocarci incuranti delle memorie racchiuse sui bassorilievi che mostrano la deportazione, e con i nomi di chi partì senza fare più ritorno.

...distolgo lo sguardo dai segni e simboli della memoria e mi avvio per le Fondamenta della Misericordia, e non sembra proprio di essere a Venezia.

Seppure l'ora pomeridiana sia quella del pienone dei turisti, in questo angolo della città sono quasi da solo e solo qualche veneziano (la cui cadenza dialettale si fà sentire subito) seduto ai tavolini all'aperto della famosa osteria Al Timon  accompagnano il mio peregrinare.......

A pochi passi dal Ghetto in questa piccola osteria, anzi "bàcaro" per i veneziani, gestita da giovani veneziani si possono assaggiare degli ottimi cicheti e buoni vini da sorseggiare seduti sulla fondamenta d’estate, oppure sulle tavole del bagarozzo ormeggiato difronte.
Datevi tempo, osservate il via vai e gustatevi qualche cicheto.  Sarà il miglior "tempo perso" che abbiate mai scelto di vivere nelle vostre escursioni a Venezia. 

Cannaregio: dal Ghetto alla Madonna dell'Orto

Durante la sosta "Al Timon" il tempo si è nuovamente rimesso al bello così decido di proseguire nel mio itinerario costeggiando il Rio della Misericordia per un lungo tratto. Sono completamente solo e nuovamente il silenzio riempie ogni angolo di questa Venezia minore. Una volta oltrepassato il ponte dei Servi giro a sinistra per la Calle Larga e una volta superato il ponte sul Rio della Sensa mi ritrovo al Campo dei Mori.


Alle mie spalle Cà Mastelli, la casa-emblema della borghesia mercantile di Venezia.
La bifora angolare inglobante un'ara romana con uno strano bassorilievo  (un dromedario carico di spezie e tirato a fatica da un cammelliere)  preannuncia i tre mercanti della mauritania che si erano stabiliti in questo quartiere con le loro figure marmoree a grandezza naturale.

Accanto a loro un quarto uomo che alcuni vorrebbero come il quarto mercante, mentre molti indicano come il loro fido servitore, cioè il conduttore del famoso cammello, Sior Antonio Rioba, con il naso in ferro posticcio.
Certamente quello che sappiamo è che il Sior Antonio divise con il Gobbo di Rialto (altro famoso personaggio della storia veneziana) il ruolo di sfogo satirico della città.
Una specie di Pasquino veneziano

Sono al Campo dei Mori così chiamato per via della presenza di queste statue trecentesche in pietra d'Istria inserite nei muri delle case che circondano il Campo. Le statue rappresentano i fratelli Mastelli, (Rioba, Sandi e Alfani) venuti dalla Grecia per commerciare in spezie, i quali abitavano nel vicino palazzo affacciato sul rio della Madonna dell'Orto. Per l'esattezza questi mercanti venivano dalla Morea (toponimo veneziano per indicare il Peloponneso) e per questo venivano chiamati Mori, per via quindi della loro provenienza e non per il colore della pelle.

E' importante ricordare che Venezia cercò sempre di inserire le comunità straniere nella vita produttiva cittadina, lasciando loro libertà d'iniziativa e possibilità di lavoro con conseguente uguaglianza amministrativa e giuridica con la popolazione locale. Per questo molti mercanti e artigiani del vicino oriente trovavano utile e conveniente stabilire a Venezia, oltre al proprio domicilio, anche la sede della loro azienda o almeno il laboratorio di produzione. 

Le abitazioni, le costruzioni per le attività produttive e per il culto usate dalle diverse colonie straniere, risultavano sparse in varie zone della città e inserite nel tessuto urbano senza confini precisi (a parte alcune rare eccezioni come abbiamo già potuto notare nella visita al Ghetto Nuovo).

E' interessante notare come tutte queste statue un tempo fossero dipinte. Infatti la città, nel suo momento di maggior splendore, era un trionfo di colori, affreschi, arazzi, insomma una città viva in tutti i sensi e non solo commercialmente.
Quindi non poteva che trovarsi quì vicino al Campo dei Mori la casa e la bottega di uno dei più noti pittori veneziani. Un pittore con notevole forza espressiva e compositiva e che evidenziava in magistrali giochi di luce e colori il fascino delle sue tele. Jacopo Robusti, sicuramente più noto come il Tintoretto.

In pochi passi ci portiamo alla Chiesa della Madonna dell'Orto.
Il nome con il quale la chiesa entrò a far parte della storia di Venezia, e con il quale è nota in tutto il mondo, fu quello che le venne dato dalla popolazione dopo che vi fu collocata una statua della Vergine, che era ritenuta miracolosa.
La statua venne scolpita da Giovanni De Santi, su committenza del parroco di S.Maria Formosa, il quale, non trovandola di suo gradimento, la rifiutò quando era ancora in corso di realizzazione.
Una volta terminata lo scultore De Santi sistemò allora, provvisoriamente, nell'orto della propria casa la statua di pietra tenera.
Da quì il nome della statua e della Chiesa dove ancora oggi è custodita.

Di lì a poco la moglie dello scultore si accorse che la statua emanava strani bagliori durante la notte: la notizia si diffuse presto in tutta la città e il luogo divenne meta di pellegrinaggi.
In seguito al verificarsi di alcuni miracoli e al conseguente aumento della venerazione popolare, il vescovo indusse lo scultore a trasferire la statua nella chiesa di San Cristoforo. 

A sinistra, dopo pochi passi dal sagrato della Chiesa, prendiamo per Calle Piave ed in breve mi ritrovo alla fermata actv della linea di navigazione che mi riporta al Lido.
La giornata ormai volge al termine e con la luce fievole del tramonto lascio la mia città con la consapevolezza che mi viene da una citazione di un romanziere veneziano (uno dei più noti personaggi del fumetto italiano ed internazionale):


"....lasciamo la scienza a coloro che pensano
che ogni cosa possa essere rappresentata
con una equazione o una determinazione.....
noi sappiamo invece che la vita ... è ben altro
"


H. Pratt   



G
M
T
Y