martedì 9 dicembre 2014

Asiago: alle Melette per il sentiero delle "Puche"

Con il nome generico di Melette si intende quel gruppo di rilievi montuosi tondeggianti e per la maggior parte prativi, situati nella parte nord orientale dell'Altopiano di Asiago e paralleli alla dorsale del Monte Fior.
Questi rilievi, la cui altezza varia dai 1.400 ai 1.800 mt., sono caratterizzati da formazioni rocciose molto particolari.

Lungo la strada che da Gallio porta a Foza, una volta giunti alla contrada Sambugari (nei pressi di un'isola ecologica dove si può parcheggiare l'auto) parte una strada forestale, ben visibile nella foto a lato, che consente di salire alla malga di Meletta Davanti creando un giro ad anello con il nuovo sentiero delle "Puche".

Infatti una volta arrivati in prossimità di un lariceto, invece di proseguire dritti verso est, si svolta a sinistra verso nord  per incrociare a quota 1.400 mt circa i primi cartelli segnaletici del nuovo sentiero delle "Puche", grandi faggi che hanno assunto una conformazione particolare a seguito di potature che venivano effettuate neisecoli scorsi.

Puche è un termine che deriva dal dialetto cimbro "Puach = Faggio" e sono una specificità nel panorama della silvicultura del Veneto.
La particolarità della loro forma, simile in molti casi a quella di enormi candelabri, è dovuta alla pratica della capitozzatura. Questa tecnica, ora completamente abbandonata, consisteva nel taglio del tronco all'altezza di 2-3 metri per stimolare la pianta all'emissione di nuove fronde e polloni.

Il risultato era, in pratica, un ceduo aereo adatto alla produzione di foglia per l'alimentazione del bestiame, protetto dal morso degli animali pascolanti trovandosi ad una altezza sicura dal terreno. Nella zona era infatti largamente diffuso nei secoli scorsi la pratica dei prati-pascoli alberati, ovvero pascoli in cui si trovavano piccoli raggrupamenti di faggio che costituiva l'essenza arborea dominante.

Alcuni recenti studi hanno dimostrato come questa pratica permettesse una maggior abbondanza di specie foraggere nei pascoli alberati piuttosto che nei vicini pascoli aperti. Questo consentiva ai pastori dell'epoca di avere a disposizione una maggior quantità e miglior qualità di foraggio verde (frasche) e fieno per il proprio bestiame (in prevalenza pecore e capre) condotto in montagna dalla pianura durante i mesi estivi, secondo l'antico rito della transumanza.

Negli anni scorsi sono stati realizzati interventi finalizzati all'eliminazione di alcune piante di abete rosso che creavano troppo ombreggiamento ed ostacolo alle "Puche" al fine di preservare queste ultimi spettacolari esempi di archeologia ambientale. Inoltre è stato realizzato un sentiero (variante Le Puche 858b) che collega la strada forestale che sale dalla frazione Sambugari a questo interessante luogo.

Una volta usciti dal bosco un lungo traverso ci conduce verso est fino ad incrociare il sentiero cai 858 che sale dalla Contrada Campanella. Da questo punto si prosegue verso nord, tra l'erba  con un paesaggio che si apre sempre di più permettendoci di ammirare uno straordinario panorama di tutto l'Altopiano di Asiago.


Un centinaio di metri di dislivello ci portano al cippo commemorativo della Grande Guerra situato nei pressi della casara Meletta Davanti  a 1.703 mt che è il punto d'arrivo della nostra escursione.
Volendo si potrebbe proseguire verso il punto più alto della dorsale delle Melette, dove c'è l'arrivo di una delle seggiovie degli impienti invernali, ma il panorama che si gode dal cippo è sufficientemente ampio da comprendere a est Cima d'Asta con una parte del Lagorai, il gruppo delle Pale di San Martino, la dorsale del Monte Fior e il Grappa.

 
Mentre a ovest possiamo osservare i Lessini, il Carega e il Pasubio, il monte Verena, uno squarcio sul gruppo del Brenta, il Fravort e il Lagorai, il Portule e cima Dodici, e l'Altopiano in tutta la sua estensione.


Partenza: Contrada Sambugari 1.050 mt
Arrivo: Meletta Davanti - cippo 1.704 mt
Ascens acc.: 700 m
Distanza con alt: 10 km
Tempo: 4 ore
Energia: 1075 kcal
In colore verde la traccia di salita, mentre in rosso è evidenziata quella di discesa.   

lunedì 1 dicembre 2014

Asiago: Monte Fior e Castelgomberto

Due vette vicine tra loro, vicine a tante altre, eppure unite come non mai da un’unica storia: la prima battaglia delle Melette nella Grande Guerra dove sono assunte a simbolo del sacrificio e dell’abnegazione. Per entrambi gli schieramenti italiano e austroungarico queste cime divennero esempi di abnegazione che, ci auguriamo, le persone, soprattutto quelle delle nuove generazioni, ricordino e imparino a non ripetere.

Attacchi sfiancanti, difese logoranti, bombardamenti ininterrotti, mitragliamenti, ripiegamenti: un vero calvario. Sull’onda dell’entusiasmo per il facile successo nella parte iniziale della Strafexpedition, sul finire del maggio 1916, le truppe austriache si riversarono in massa alla conquista del massiccio delle Melette (Meletta di Gallio, Meletta di Foza e Meletta Davanti), e le cime del Monte Fior e Castelgomberto.

Ed è qui che le forze austroungariche non si aspettavano di trovare la più tenace resistenza che gli italiani avessero mai posto. In quell’area, fresca di schieramento si trovava la Brigata Sassari, richiamata dalle sponde dell’Isonzo, dove si trovava sin dall’inizio della guerra, e trasferita in quota in tutta fretta per supportare la scarna difesa regia proprio su queste montagne investite dall’impeto dell’attacco.

Da qui la vista spazia su tutto l’antico fronte; a nord le vette dell’altopiano, a est la piana di Marcesina e poco distante la vallata di Feltre, le cime del Nevegal e le alpi bellunesi; a ovest le cime che diverranno il nuovo fronte dopo l’assalto iniziale e a sud, girando la testa dal nemico, la Valsugana che accompagna il fiume Brenta fino a Bassano. Da Bassano finalmente alla pianura; poi Padova e Venezia, quindi la Vittoria!

Eroismo, follia bellica, ma anche pietà, umanità e senso di abnegazione. Ai piedi del Monte Fior, sui “roversi” della Meletta di Gallio, c’è Malga Slapeur; qui il comando bosniaco aveva preparato il cimitero prima ancora dell’assalto ed un’iscrizione dice tutto: “freund und feind” ovvero “per gli amici e i nemici”. Chi non veniva recuperato dal campo di battaglia dai “suoi” veniva seppellito dagli “altri”, magari gli stessi che lo avevano ucciso poche ore prima.

A camminarci oggi sembra incredibile che queste montagne abbiano potuto ospitare un evento di tale inumana vastità. La selletta Stringa collega il Castelgomberto al Fior. Una segnaletica molto ben realizzata e conservata accompagna la visita di questi luoghi sin dai primi passi. Pannelli ben pensati riportano spezzoni delle opere letterarie di chi quei momenti ha vissuto, soprattutto dal libro di Lussu, Un anno sull’altipiano, che così bene ha descritto questi luoghi e quei momenti tragici.

Dalla selletta si risale, costeggiando la trincea originale, sino alla vetta del Monte Fior ed alla galleria che ne buca l'anticima e che permetteva in un attimo di passare dal versante est a quello ovest, opera di ingegneria militare che garantiva il collegamento diretto ed invisibile tra la prima e la seconda linea. Conquistata la vetta a quota m. 1.824 si comprende il perché dell’entusiasmo austriaco nei primi momenti della battaglia: la vista è spettacolare.

Ancor più incredibile è come avessero fatto a raggiungere quella cima sotto il fuoco nemico, per salite ripidissime, sotto il sole. Commuove il sapere che entro quella stessa giornata del 7 giugno vennero ricacciati sulle posizioni iniziali e che, di li a poco, avrebbero perso anche quelle per poi doverle riconquistare a caro prezzo un anno dopo. Un continuo passaggio di mano, tragico e cruento, ma si sa, la guerra è così.

Ben tre volte il comando austriaco tentò di sfondare le linee italiane su questi monti, e ogni volta che ci riuscì dovette poi ripiegare; nel giugno '16, nel novembre '17 con le montagne imbiancate, ed ancora nel giugno del '18.  Come ben descrive Fritz Weber nel suo libro Tappe della disfatta, le battaglie che si combatterono su questi monti non produssero nessuna "vittoria" ma solo morti.

Queste vette oggi portano ancora i segni di quella tragedia, della carneficina e del tributo di vite umane che quella guerra ha preteso: migliaia di uomini in armi, bombardamenti, cannoneggiamenti, mitragliamenti, assalti, contrattacchi, ritirate, sortite, e ancora fame, sete, dolore, morte. Passeggiando per questi luoghi si rivive tutto, si viene pervasi da queste sensazioni, diventano parte di noi e, a meno che non si abbia un pezzetto di granito al posto del cuore, non ci lasciano più.



La scheda è di Stefano Turrini