mercoledì 29 settembre 2010

Quando l'estate sembra finire.....

Ora,  la brina con la prima neve lassù, alle quote più alte, ha rinsecchito l'erba assieme agli ultimi fiori,  e nei luoghi a nord, dove il sole fa capolino solamente per pochi minuti al giorno, è rimasto quell'odore umido di muschio e felci che accompagna sempre la stagione dei tramonti.

Ma le giornate che hanno preceduto l'ultima perturbazione si sono avvicinate molto alla perfezione, all'idea che tutti noi abbiamo di 'estate', con la classica nuvoletta su un cielo terso ed azzurro, i boschi ed i prati ancora di un bel colore verde, una leggera brezza al mattino che ci sfiorava ed  accarezzava il viso illuminato da un sole tiepido.

Ma forse sapevamo già  che tutto questo era destinato a rimanere tale solo per poco tempo.

E l'inquietudine per la fine di questa particolare estate ha iniziato allora a pervadere il nostro animo
Quell'inquietudine che accompagna sempre lo scuotersi e il fremere della vita quando è pervasa dalla nostalgia dei ricordi;
L'inquietudine che accompagna il vento temporalesco che spezza la luce e irrompe sugli alberi strappando loro le foglie, preavviso della caducità della vita;
L'inquietudine che accompagna l'addensarsi di nubi cariche di pioggia che oscurano il cielo rendendo cupi e smorti tutti i colori.

Allora, e più di prima, ci aggrappiamo alla speranza che uno squarcio tra le nubi
ci mostri un altro orizzonte,
un nuovo cielo e una terra nuova.
Solo così l'inquietudine e il dolore che pervade la nostra anima può trasformarsi in una sfida a osare, a buttarci, a lasciarci andare nella corrente, nella vita
dalla quale proveniamo e alla quale aneliamo a fare ritorno.



"Inqueutm est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine."
"inquieto è il nostro cuore finché non trova pace e riposo in Te, o Signore".
così scriveva Sant'Agostino nelle Confessioni e raramente un filosofo è riuscito a dare forma alla nostra inquietudine con un pensiero così sintetico.



a Giuseppe e Giovanna con affetto


martedì 28 settembre 2010

Il peso della farfalla

“Il peso della farfalla” di Erri De Luca è a metà fra una favola ed una riflessione esistenziale.
Potremmo definirla una favola per adulti in due racconti.

Nel primo racconto i protagonisti sono due: un grande camoscio, re del branco, talmente grande che gli altri camosci non tentano neppure di sfidarlo, e un vecchio cacciatore, un uomo solitario, cresciuto in montagna, tanto schivo alla città e alla civiltà quanto profondo conoscitore di ogni angolo di quella montagna.
Si conoscono da tempo il camoscio ed il cacciatore: da giovani il secondo uccise la madre del primo: l’odore di quel cacciatore e dell’olio usato per lubrificare l’arma è rimasto impresso nelle narici del camoscio fino alla vecchiaia.
Ed ogni volta che il cacciatore sale la montagna per predare il branco, il camoscio lo sente e lo sfida.
E’ strano il camoscio: non vive col branco. Lo controlla, gli sta vicino, ma si presenta a loro solo nella stagione degli amori. Il resto dell’anno vive per conto suo, proprio come il cacciatore che vive solitario in una casetta ai margini del bosco. Quest'ultimo caccia per vivere e fornire di carne ristoranti ed alberghi avendo la sensazione di essere comunque un predatore, un “ladro di bestiame” nei confronti di Colui a cui tutto appartiene. E sa che dovrà pagare, alla fine, tutti i suoi “furti”.

Nel secondo racconto, decisamente più breve, De Luca ribadisce l’elogio della solitudine che è il leitmotiv di tutto il volume.
Siamo nelle Dolomiti ai piedi delle Tofane nel parco naturale di Fanes, dove Erri, almeno una volta all’anno, va a visitare un cirmolo (pino cembro) nato da un fulmine, che aveva spezzato l’albero precedente, che si protende sul vuoto della Valle in una posizione solitaria ma dominante.

“Il peso della farfalla” torna a ribadire l'amore dello scrittore per la montagna, per quelle cime che gli uomini un tempo destinavano alle divinità e che oggi, invece, sfidano con l'alpinismo estremo.


Forse ha ragione Melville quando dice che Colombo ha esaurito il romanzo della Terra.
A noi, quindi, restano solo le montagne: territori ostili dove costituiamo specie intrusa cui le forze della natura concedono un temporaneo lasciapassare, con i ghiacciai e le vette che hanno saputo mantenerci ospiti, scrollandosi di dosso noi e il nostro concetto di conquista.

domenica 26 settembre 2010

Il Cirmolo

“Si sporge dalla roccia su un abisso.
Il suo ceppo iniziale era sul bordo e fu distrutto da un fulmine.
Allora la radice ha ributtato in fuori, sopra il vuoto, un ramo orizzontale.
Da quello è ripartito verso l’alto: l’albero sta così appoggiato all’aria, da gomito su un tavolo.
È un cirmolo, parente dell’abete, ma più folto di rami e solitario, inadatto al servizio di Natale dei suoi simili decimati nei boschi dei pendii più facili.
Se ne sta a quota 2200, con gli ultimi tronchi che azzardano l’altezza, poggiati sbiechi su versanti scoscesi offrendo angolo retto al cielo.
Nessuno sale a tagliarlo, troppo rischioso sporgersi sul vuoto, trascinerebbe con sé il boscaiolo.
D’estate riceve il primo sole alle 6, salito dietro una cima di Fanes.
Una volta all’anno salgo a salutare l’albero,
mi porto da scrivere e mi siedio al suo piede.
A due metri da lui, ovest preciso, spuntano dai sassi quattro stelle alpine, un principio di costellazione.
Ancora un paio di metri a ovest un mugo accovacciato al suolo sparge i suoi rami in cerchio. Dentro vive una vipera, la sento soffiare poi calmarsi.


Un albero solitario ha un recinto invisibile, largo quanto l’ombra da poggiare intorno. Prima di entrarci tolgo i sandali.
Mi stendo alla sua luce.
Il cirmolo solitario è capace di biforcarsi in due rami principali, impossibile per l’abete e il larice.
Il fusto di quello quassù ha due braccia levate, parallele, una è per il fulmine. Sa di essere a bersaglio, l’altezza solitaria lo comporta. È nato dalla scarica che uccise il tronco precedente a lui.
Il fulmine è suo padre secondario. Varie paternità si succedono a cause, i loro figli a effetto. Terra è sua madre in cui si attacca a polipo di scoglio. “……

tratto da
" Il peso della Farfalla"
di Erri De Luca
ed. Feltrinelli, 2009

venerdì 24 settembre 2010

Grappa al cirmolo e miele di acacia

1° Parte
Per la grappa al cirmolo o pino cembro sono necessari:
500 g di pigne di pino cembro
1 litro di grappa di vinaccia a 35° o 40 °
10 g di zenzero fresco
1 buccia di arancia non trattata
Mettete in un vaso di vetro le pigne insieme alla grappa allo zenzero fresco ridotto in pezzetti e alla buccia dell'arancio non trattato.
Ponete il vaso per 40 giorni circa al sole, avendo cura di agitare il vaso una volta al giorno.
Filtrate e tenete da parte.

2° parte
Per la grappa al miele:
1 litro di grappa al cirmolo
500 g di miele di acacia
Ponete la grappa ed il miele in un vaso di vetro che inserirete in una pentola piena d'acqua.
Scaldate a bagnomaria e mescolate con un mestolo di legno finché il miele non si sarà completamente sciolto (intorno ai 40 gradi), quindi lasciate raffreddare.
Imbottigliate e.........