domenica 23 dicembre 2007

Buon Natale

Il sogno di Maria
"Nel Grembo umido, scuro del tempio,

l'ombra era fredda, gonfia d'incenso;
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese - Conosci l'estate
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade,
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.

Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,

ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.



(... e l' angelo disse: "Non
temere, Maria, infatti hai
trovato grazia presso il
Signore e per opera Sua
concepirai un figlio...)

"...Voci di strada, rumori di gente,
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.
Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno ma sonno non era

- Lo chiameranno figlio di Dio -
Parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre."

Il Ritorno di Giuseppe

"Stelle, già dal tramonto,
si contendono il cielo a frotte,
luci meticolose
nell'insegnarti la notte.

Un asino dai passi uguali,
compagno del tuo ritorno,
scandisce la distanza
lungo il morire del giorno......."

"Ai tuoi occhi, il deserto,
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura.

Gli uomini della sabbia
hanno profili da bambini,
rinchiusi nei silenzi
d'una prigione senza confini.

Odore di Betlemme,
la tua mano accarezza il disegno
d'una bambola magra,
intagliata nel legno. ...."

"........E lo stupore nei tuoi occhi
salì dalle tue mani
che vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d'una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventre.

E a te, che cercavi il motivo
d'un inganno inespresso dal volto,
lei propose l'inquieto ricordo
fra i resti d'un sogno raccolto. "


(testi liberamente tratti dalla "Buona Novella" di F. De Andrè)

domenica 16 dicembre 2007

L'odore della neve


Venerdì in tarda serata si sentiva nell’aria l’odore della prima neve: un odore pulito, leggero quasi il mondo fosse sospeso nel tempo e nello spazio.
Alzando lo sguardo verso l’Altopiano di Asiago si vedeva un tenue grigiore che dalle cime a sud raggiungeva i boschi e, seguendo la conformazione del terreno, si abbassava verso le nostre colline e il paese.
Dopo poco tempo già la punta del campanile e le campane erano dentro il grigiore lattiginoso e poi anche la chiesa, i tetti delle case più alte. Sulle strade rese polverose dalla siccità, sulle cataste di legna non ancora messa al riparo sotto la tettoia, sui cortili hanno iniziato a cadere le prime stille.
In breve la neve ha iniziato a coprire le strade, l’erba secca sui pascoli, la segatura di faggio nei cortili, le tombe del cimitero.

Le voci, i rumori del paese, i richiami dei passeri e dei pettirossi si facevano lievi, e a questo punto mi veniva alla mente le parole con cui M. Rigoni Stern descriveva la prima neve dell’inverno: la “brüskalan”, la neve d’autunno che diventa vera “sneea”; neve abbondante e leggera giù dal molino del cielo.
E questo odore particolare unito al profondo silenzio portato dalla neve iniziava a spargersi tra le case e i giardini.
Così il silenzio della notte mi ha subito riportato indietro ai ricordi della mia infanzia.

Allora, quando iniziava a nevicare, si correva subito in soffitta a prendere la slitta.
Una volta calzati gli stivali o gli scarponi ci si dava una voce per ritrovarsi tutti in cortile e da lì si partiva per raggiungere la piazza del paese.
Si slittava sulla strada che scendeva verso la piazza, sfidando la gente che camminava e le sgridate delle madri e delle nonne che andavano a messa, scivolando sulla neve indurita destinata a diventare ghiaccio vivo.
Questo più di trent’anni fa.



Ma poi l’inverno diventava lungo e le scorte di legna si assottigliavano perché la stufa in cucina mangiava velocemente la legna che io e il nonno con tanta pazienza avevamo accatastato nella legnaia sotto il portico in primavera.
La sedia del nonno era vicina alla stufa, era lì che amava raccontarmi le sue storie di guerra e di caccia, quando rientrato bagnato e infreddolito, mi mettevo tra la sua sedia e la stufa appoggiando la schiena al caldo della parete.
E allora lui, dopo avermi dolcemente “brontolato”, iniziava a raccontare.




Gnocchi di zucca
al profumo di cannella
su fonduta di ricotta fresca e yogurt




un piatto particolare dove al bianco della fonduta di ricotta fresca e yogurt che ricorda molto la “sneea” (la prima neve dell'inverno) si contrappone il colore caldo dei gnocchi di zucca che rimanda all'autunno, stagione che la prima neve ha definitivamente chiuso.
Il profumo della cannella perché questa spezia ha il potere di evocare ricordi e memorie.

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martedì 4 dicembre 2007

Filetto lardellato di maiale e pollo con polenta e radicchio

Ariel Auslender

Alberto mi scrive chiedendomi di postare anche un secondo piatto di stagione, riferendosi a quella del maiale.
La richiesta poteva anche essere semplice da esaudire se non fosse stato per alcune condizioni restrittive che lui ha aggiunto nella email che mi ha spedito.
Tra gli ingredienti non dovevano figurare gli insaccati sia freschi che stagionati, ma neppure costine o braciole.
Poi, essendo anche lui veneto come il sottoscritto, mi ha chiesto che fosse presente tra gli ingredienti anche la polenta.
Sinceramente, non volendo fare il solito arrosto, ho dovuto ricercare e congetturare un bel pò prima di riuscire a elaborare un piatto che mi fosse congeniale.
Alla fine è uscito un...............


Filetto lardellato di maiale e pollo con polenta e radicchio

Per il filetto la cosa più semplice è quella di farselo preparare dal macellaio di fiducia (nel mio caso macellaia..).
In una padella dove avete fato sciogliere una noce di burro, cuocete il filetto a fuoco basso per 18/20 minuti avendo cura di girarlo una sola volta a metà cottura.
Nel frattempo tagliate la polenta a disco con un bicchiere e ponetela in forno ad asciugare fino a quando farà una sottile crostina.
A questo punto potete, a piacere, insaporirla adagiandola nella padella dove state cuocendo il filetto.

Tagliate a metà, nel senso della lunghezza il radicchio precoce di Treviso, e, dopo avere avvolto ogni metà in una fettina di lardo, avvolgetelo nella carta da forno lasciando aperto un lato e chiudendo bene l'altro.
Cuocetelo in forno, a 120 gradi, per 12 minuti.
Aprite i cartocci e componete nel piatto con la polenta e il filetto lardellato.
Buon appetito.


mercoledì 28 novembre 2007

I sapori della memoria - Parte 1°

Nel tempo in cui si faceva i chierichetti, dopo aver servito la “messa prima” alle sei del mattino, si ritornava a casa per la colazione fatta immancabilmente di una scodella di latte a cui qualche volta si poteva aggiungere un cucchiaio di orzo solubile oppure di cacao ed un altro di zucchero.
Poi la scelta stava tra due fette di polenta abbrustolita, oppure una “ciopa” di pane raffermo tagliata a piccoli pezzetti in modo tale che ai nostri occhi sembrava enorme.

Poi via,..... a scuola, sempre da soli qualunque fosse il tempo, sin dalla prima elementare, con la cartella in mano e, all’interno libri, quaderni, penne, pennini, il più delle volte spuntati, e l’immancabile panino con …..niente …..per la ricreazione.

Il pasto del mezzogiorno, tranne la domenica, era costituito da un piatto unico, un primo a base di pasta o riso alternati al “minestrone”, qualche volta gli gnocchi o la famosa pasta e fagioli.

La sera ci si arrangiava con un piatto di minestra e un pezzo di formaggio con una patata.
Fino all’età di 14 anni non ho mai conosciuto le patate fritte e le patatine chips ma solo “patate in tecia”, cotte cioè nella profonda padella nera di ferro con olio, forse un po’ di burro e pomodoro, oppure le patate lesse che alla sera erano accompagnate da qualche pera volpina.
Ma, spesso, era ancora una scodella di pane e latte che, dopo avere aperto la giornata, finiva anche con il chiuderla.

Così le nostre speranze di assaporare qualcosa di diverso erano tutte riposte nelle uscite estemporanee di caccia del nonno (o del papà il sabato e la domenica).
Anche se la fortuna, alcune volte, non li portava ad avvistare nessuna allodola, tordo o altro volatile edibile non si perdevano mai d’animo e con destrezza e esperienza consumata riuscivano a catturare una certa quantità di gamberi d’acqua dolce o di “marsoni” (pesci dalla grossa testa e caratteristici di alcuni torrenti della Pedemontana vicentina) che venivano pescati con il retino (o la forchetta) nel torrente che fluiva vicino a casa.


Così quel giorno, che poteva ben dirsi fortunato, alla pasta e fagioli si accompagnava una succulenta frittura di gamberi.
Più raramente poteva anche capitare che venisse portata in tavola della carne secca; tagliata sottile e servita, come i suoi cugini salumi, assieme ad un’insalata di fagioli con la salsa.
Ma questa è un’altra storia.

Zuppa di Fagioli con gamberi e speck affumicato
Un piatto complesso che ricostruisce i sapori della memoria:
i gamberoni sostituiscono i più prelibati e protetti gamberi di fiume, mentre lo speck affumicato la carne secca oramai divenuta molto rara.
Ingredienti
250 g di fagioli di lamon
1 carota
1 cipolla tritata
4 fette di speck affumicato o foresta nera
16 code di gambero sgusciate
olio extravergine di oliva
prezzemolo
due spicchi di aglio
4 fette di pane
Lasciate a bagno i fagioli (se secchi) per una notte.
In una pentola capiente mettete mezzo bicchiere d'olio extravergine di oliva e fate ammorbidire le cipolle e la carota. Aggiungeteci un litro d'acqua, un cucchiaio di sale grosso e i fagioli.
Coprite e lasciate cuocere per circa 2 ore.
Quando i fagioli risulteranno ben cotti toglietene un paio di cucchiai, che terrete da parte.
Con il minipimer frullate tutto bene, sino ad ottenere una crema. Se risultasse troppo densa, allungate con dell'acqua. Rimettete sul fuoco e versateci i fagioli interi che avete tenuto da parte.
Nel frattempo ritagliate le fette di speck a strisce larghe 3 o 4 cm appassitele in una padella antiaderente fino a renderle croccanti.
Fate rosolare in una padella con del burro e l’aglio schiacciato le code di gambero per 2/3 minuti. Spolverate con del prezzemolo tritato e tenete da parte.
Ora componente il piatto:
Dopo aver versato la crema di fagioli, disponete al centro di ogni piatto quattro code di gambero e alcune strisce di speck croccante e una fetta tagliata in due di pane che avrete precedentemente abbrustolito in forno.

giovedì 22 novembre 2007

Passiti da meditazione: Torcolato - Breganze

Nel seicento tutto il territorio collinare a nord di Vicenza era un’oasi climatica dove gli aristocratici e i benestanti veneti avevano fatto edificare principesche dimore palladiane, naturalmente circondate dai vigneti.

Le uve erano Groppello, Pomello e Vespaiola.
Le prime due, a bacca rossa, presero piede quando la fillossera fece piazza pulita dei vigneti europei; l’ultima, a bacca bianca, è invece sopravvissuta ed è diventata la protagonista assoluta del “Torcolato”, un vino passito che si produce nel territorio della Comunità montana dall’Astico al Brenta.

La vespaiola, presente per 85% nella produzione del Torcolato, già dal nome rivela il segreto del suo successo: è così ricca di profumi e soprattutto zuccheri da essere considerata l’uva preferita dalle vespe. Il resto è costituito da Garganega, Pedevenda e Tocai

Il nome del vino deriva dalle “torcole”, che sono dei spaghi attorno ai quali i grappoli, una volta vendemmiati, vengono attorcigliati, ovvero, torcolati (vedi foto), e appesi, a travi di legno, ad asciugare in locali aerati o nei solai dei casali.
Quelli da ottobre a gennaio sono mesi cruciali: un cauto dosaggio dell’apertura delle finestre dei locali a seconda del clima della giornata, e l’eliminazione degli acini marciti sono due fondamentali azioni della cura quotidiana di cui i grappoli di vespaiola hanno bisogno in questi mesi.
Le uve appassendo lentamente rilasciano nell'aria la loro acqua sottoforma d'umidità che deve essere eliminata con una buona circolazione d'aria. In questa fase si sviluppa anche la Botrytis Cinerea nella forma larvata, la famosa muffa nobile, che favorisce la concentrazione degli zuccheri e contribuisce alla creazione di speciali profumi e aromi che si troveranno poi nel vino. Tra Natale e l’Epifania, arriva finalmente il momento della torchiatura: i grappoli interi, non pigiati, finiscono sotto il torchio, anche per un intero giorno, con una pressione limitata.

Il succo, non più del 30% del peso dell’uva, esce piano e ancora più lenta sarà la sua fermentazione. Dopo tre mesi il vino sarà ancora dolce, ma al punto giusto e con un piacevole equilibrio tra acidità, alcol e profumi. Infine il legno delle botti darà l’ultimo affinamento alle sensazioni olfattive e gustative complesse e uniche che questo vino sa regalare.
Odorando un calice di questo vino, si avvertono subito aromi di frutta, fico o di albicocca secca. Una piacevole sorpresa è il suo gusto. Dopo una prima impressione di gradevole dolcezza, il vino lascia la bocca asciutta e un gusto di non-dolce tipico e unico. Si risentono gradevoli note fruttate, e, non di rado lievi e piacevoli sentori di miele di castagno nel lungo finale aromatico. E' questo equilibrio di sentori che rendono questo vino così magico.
Assaggiati per voi:

* Az.Agr. Maculan Fausto (Annata 2004, uvaggio misto, affinamento barrique ): ottimo

* Az. Agr. Cà Biasi di Dalla Valle (Annata 2003, uvaggio misto, affinamento misto): ottimo

* Az. Agr. Miotti Firmino ( annata 1998, uvaggio misto, affinamento acciaio): il migliore

* Az. Agr. Bonollo Giuseppe (Annata 2002, Vespaiola in purezza): ottimo

E’ sicuramente un vino, nella sua migliore produzione, da meditazione.
Certo può accompagnarsi bene con formaggi erborinati, o saporiti ed invecchiati come il Vezzena. Di gusto più raffinato è il matrimonio con piatti a base di fegato, ancor meglio se di volatile, quale anitra od oca, come ama illustrare l’istrionico Fausto Maculan (forse il miglior produttore della zona), ma la storia e soprattutto le sensazioni che questo vino sa regalare gli conferiscono un posto di eccellenza tra i vini da meditazione.

E ora, dopo aver chiuso telefono e computer, inserisco un cd nel player.
Mi verso del Torcolato in un calice e mi lascio scivolare nella poltrona.
Spengo la luce per lasciarmi maggiormente coinvolgere dalla fiamma della legna che brucia nella stufa e dal suo potere ipnotico…..
......il tempo in questo momento si ferma
per tutto ciò che non è indispensabile.
Una scelta di andamento lento.
Perché il tempo che impone il Torcolato è un lusso che posso scegliere di godere o condividere.
Ascolto a fior di labbra sentori e profumi d’infinito che immediatamente raggiungono sensi e desideri , mentre le sue seducenti attese sono precedute di un passo, e leggere, restano ora nella mia memoria………. per sempre.

Questo vino partecipa a il Vino dei Blogger #12 Passiti da Meditazione
(Primo Anniversario) di Marco Cenci Loste di Una colica d'acqua.

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mercoledì 21 novembre 2007

Stagioni




Il racconto di una vita parte dall'inverno e chiude il cerchio con l'attesa della neve che verrà.
Mentre il narrare procede da una stagione all'altra camminando, passo e pensiero fianco a fianco.

 



" Al mattino gli stagni degli abbeveratoi sono velati dal ghiaccio e nelle zone in ombra la brina,
giorno dopo giorno, aumenta la sua consistenza.
Uno sparo lontano ti farà ricordare che il tempo della caccia sta per finire.
...... Così una dolce malinconia ti prende, la melanconia dell'autunno e ,
sotto un larice, all'asciutto cerchi anche tu un luogo dove accucciarti
per meditare sulle stagioni della tua vita e sull'esistenza che corre via con i ricordi
che diventano preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto
e per i doni che la natura ti elargisce.
Una mattina vedrai il cielo uniformemente grigio, le montagne dentro le nuvole,
i boschi più scuri e, da una catasta di legna, schizzar via lo scricciolo.
Il suo campanellino d'argento ti dirà prossima la prima neve."

M. Rigoni Stern. Stagioni, ed. Einaudi


Risotto di castagne con speck affumicato
di Sauris croccante

riso carnaroli 320g
castagne lessate 150g
speck di Sauris 50g
cipolla bianca 1
grana padano 50g
burro 30g
brodo vegetale 8 dl
rosmarino, sale e pepe q.b.


Dopo aver intagliato le castagne, lessatele per circa 30' in acqua con qualche foglia di alloro.
Scolatele e sbucciatele.
Tritate finemente la cipolla, e fatela soffriggere con un pò di olio e qualche foglia di rosmarino.
Aggiungetevi le castagne e continuate la cottura per 3 minuti.
Aggiungete il riso e fatelo tostare prima di iniziare a versare il brodo.
Continuate la cottura, incorporate il grana padano e il burro. Spegnete il fuoco e fate mantecare il riso per 2 minuti.
Nel frattempo avrete tagliato a striscioline molto sottili le fette di speck e rosolate in una padella antiaderente finché non saranno croccanti.
Servite come da foto.

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mercoledì 14 novembre 2007

Cena di seduzione ?

Una cena per sedurre un uomo o una donna?
Stefania direbbe che dipende molto dalle aspettative del dopo…….
Forse il nostro obiettivo è quello di sentirci chiedere da Lui/Lei, alla fine della cena, a quando la prossima ?
O forse quello che desideriamo è di vederlo/a in un lettino del Pronto Soccorso piegato/a in due da una colica per un’orgia enogastronomica ?
Ma no................. forse, molto più semplicemente, vogliamo prepararlo/a per la seconda parte della serata.
In questo caso non ci sono ricette preconfezionate ma forse sono da tener presente alcune regole.

La prima regola, ed è bene ricordarla sempre, riguarda il mito di alcuni alimenti afrodisiaci che appunto è e resta un mito. In realtà lo è tutto il buon cibo, e l’unico vero afrodisiaco non possiamo che essere noi stessi, il resto è solo un aiuto.

Chiediamoci innanzitutto quale situazione abbiamo davanti a noi?
Sesso espresso, oppure sogniamo una relazione?
Nel primo caso la seconda regola prevede qualcosa di disimpegnato ma d’effetto, e sarà bene curare la scenografia.
Nel secondo possiamo puntare più opportunamente su pietanze elaborate.

La terza regola ci ricorda che se vogliamo che le attività si spostino dalla tavola al letto non dobbiamo assolutamente abbuffarci ed ubriacarci altrimenti passeremo la serata a bere, mangiare e a parlare. Non è poco, ma finirà lì, e non è detto che non possa andare meglio.

La quarta regola riguarda il vino ed è una regola fondamentale perché alla fine è il vino, che allenta i freni inibitori e favorisce molto. E sicuramente non solo la conversazione.
Con l’abbinamento si valorizza il cibo, e in caso di scarse capacità culinarie possiamo recuperare bene.
Nel piatto mettiamoci pure una bruschetta, ma il vino dobbiamo sceglierlo con attenzione e senza parsimonia.

La quinta regola ci avverte che, se in cucina siamo della frane, possiamo, per una volta, ordinare tutto al nostro ristorante preferito e dire che l’abbiamo cucinato noi.
Ma il giorno dopo dobbiamo immediatamente iscriverci ad un corso di cucina.

La sesta ed ultima regola consiglia che se l’uomo in questione è uno di quelli che “mia madre lo fa meglio”, oppure la donna è una di quelle che “ buono,…..l’ho provato la settimana scorsa al ristorante…… ed era favoloso”, rispediamolo/a al mittente e cerchiamone un altro/a.

Testo rielaborato e liberamente tratto da una colica d'acqua


Crostini di pane dolce lardo e marroni

Fate lessare i marroni, dopo averli incisi, in acqua salata con qualche foglia di alloro per 30' circa.
Spellateli e spadellateli per pochi minuti in un tegame con un cucchiaio di olio extravergine, una foglia di salvia, una punta di rosmarino e due bacche di ginepro.

Fate abbrustolire alcune fette di pane dolce e, quando sono ancora calde, tagliatele e adagiatevi sopra del lardo o anche della pancetta steccata e alcuni pezzi di marroni.
Decorate con gocce di miele di castagno.




Coda di Rospo spadellata con succo di uva fragola

In una padella riscaldate un cucchiaio di olio extravergine e una noce di burro con una decina di grani di uva fragola.
Salate e aggiungetevi una buona macinata di pepe rosso (ev. mezza punta di un cucchiaino di paprika).
Filtrate la salsa in un colino per trattenere i semi degli acini d'uva. Rimettete sul fuoco e aggiungetevi la coda di rospo.
Cuocete a fuoco medio per 10'.
Servite con sformatini di patate di Rotzo

Per il vino fatevi consigliare.
Da parte mia una bottiglia di Terre Alte di Felluga

martedì 6 novembre 2007

Il Vento fa il suo giro

Era veramente da un po’ di tempo che una curiosità e un’aspettativa non mi portavano dentro ad un cinema. Sinceramente sono stati pochi i film che in questi ultimi anni hanno attirato la mia attenzione. Ma questa sera, sollecitato da alcune recensioni che avevo letto, mi sono infilato in sala a vedere "E il vento fa il suo giro"*, piccolo film indipendente italiano, premiato a vari festival locali e internazionali.

Devo dire subito che le aspettative, che mi era fatto, non sono andate deluse, ma anzi ritengo questo film un piccolo capolavoro.

Regista esordiente, Giorgio Diritti, e la storia che lui racconta nel film è ricca di poesia, e di riflessioni.
Ambientata nelle viscere aspre delle montagne della Val Maira, e nel susseguirsi delle stagioni.
Il film, infatti, si apre in inverno, stagione che si accompagna alla calda accoglienza che il pastore (protagonista del film)riceve all’arrivo in paese, e termina in piena estate quando il fuoco delle pulsioni negative della popolazione valligiana cresce sorda fino a prorompere in un’aperta intolleranza che determina il suo allontanamento.

Il risultato è un’opera per nulla accomodante, dura, che mette il dito nella piaga dell’intolleranza, nella difficoltà di relazionarsi con l’altro. E non sono certo le logiche della ragione a vincere, ma quelle della chiusura, della diffidenza e della negazione dell’altro. Tuttavia grazie ad un montaggio ellittico del film, il suo parlare per simboli e per immagini mute, a noi spettatori rimane all’uscita del cinema l'impressione che qualcosa possa iniziare a cambiare forse anche solo nella volontà di riaccendere quel focolare abbandonato. E così si esce un po' tristi ma un po' più consapevoli e liberi.

Il film ha un bellissimo sito internet, cercatelo, e guardate quando verrà proiettato nelle vostre città. Prendete una persona a cui volete bene e andate a vederlo. La vostra anima vi ringrazierà.

* Il Vento fa il suo giro si riferisce al detto popolare che vuole il vento una metafora di tutte le cose, un movimento circolare in cui tutto torna.






Risotto di zucca e porcini su cestino croccante di Vezzena

lunedì 5 novembre 2007

Lo Spiedo


Nei grandi camini veneti, con la polenta nel paiolo appeso alla cigolante catena, si cucinava e ancora in molte parti si cucina la cacciagione. Allo spiedo girano starne, fagiani e uccelli su cui vengono fatte cadere infuocate gocce di precotto”.
Così scriveva Giuseppe Mazzotti nel lontano 1963. Tradizione antica quella dello spiedo, che attraversa i secoli, che cambia nelle carni poste a rosolare al fuoco lento, ma che spande ancora profumi e sapori condivisi in un rito che rimane segno distintivo di una civiltà del “mangiare bene” legata ad una parte importante del nostro territorio.

Lo spiedo è universale e già nel VII secolo gli Arabi avevano predisposto un ricettario, che ne conteneva l’indicazione, anche se è solo nel XIII secolo che apparve in Italia nel primo ricettario (stampato a Venezia).
E nel 1490 Leonardo progettò lo spiedo automatico, mosso dal calore grazie ad un’elica.


Nel veneto è la terra vicentina e trevigiana, quella per intenderci delle Colline e delle Prealpi, che possiede storia e tradizione dello spiedo. Tra i vari paesi un posto di rilievo merita sicuramente Breganze, località situata ai piedi dell’altopiano di Asiago. Il paese deve la sua fama, prima ancora che ai suoi eccellenti vini Doc, ai piccioni terraioli, localmente chiamati Torresani che vengono cotti esclusivamente allo spiedo. Tra tutti i ristoranti del paese uno eccelleva per fama: l’Albergo Ristorante al Ponte, purtroppo oggi chiuso e ancora in fase di restauro. Fra i clienti più noti del ristorante: Alida Valli, Luchino Visconti, Enzo Tortora, Barbara Hutton , personaggi che avevano indotto un turismo gastronomico di notevole portata. In questi paesi la tradizione dello spiedo sopravvive ancora e in molte famiglie della zona per la sera dei morti (tra il 1 e il 2 di novembre) è uso preparare lo spiedo di uccelli accompagnato con la polenta. Una operazione rituale che si ripete, da sempre, per commemorare gli antenati.  
La nebbia agli irti colli
piovviginando sale
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mare,
ma per le vie del borgo
tra il ribollir dei tini
va' l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.
Gira su ceppi accesi lo spiedo
scoppiettando,
sta il cacciator fischiando
sull'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri
com'esuli pensieri
nel vespero migrar.
G. Carducci

domenica 4 novembre 2007

La Madonna della Neve


In tutti i territori montani ci sono piccole e graziose chiesette che sono state costruite in luoghi distanti dai paesi e non comode da raggiungere, ma che rispondevano all'esigenza delle comunità di marcare il territorio con un particolare segno del sacro.
In alcuni casi le ragioni per cui sono sorte si perdono nella memoria orale che spesso ha fatto nascere leggende, oppure semplicemente dalla volontà di partecipare alla messa domenicale di chi era al lavoro nei prati o sugli alpeggi lontani dai paesi.
Sicuramente una di queste, tra le più note della comunità del Primiero, è la chiesetta che si trova sull’alpe di monte Vederna e intitolata alla “Madonna della neve”.
Sull’Alpe Vederna, che si trova sopra al paese di Imer, nel 1941 si cominciò a progettare la costruzione di un piccolo luogo di culto, a beneficio delle famiglie che trascorrevano sull'Alpe tutta l'estate, per la fienagione e la cura dei campi di segale e lino. Nel mese di maggio del 1942 erano pronte 4222 lire, ma gli eventi della guerra fecero sospendere i lavori, che ripresero, con un nuovo progetto, finito il conflitto mondiale.
Così, dopo due anni di tanto lavoro prestato gratuitamente da parte di tutta la comunità, nel 1947 la costruzione della chiesa fu conclusa, e il 5 settembre del 1948 la cappella, dotata anche di campana, fu inaugurata con solenne celebrazione e intitolata alla Madonna della Neve.
Per raggiungerla si può utilizzare un sentiero storico, percorribile solo a piedi in due ore, che parte in prossimità del paese di Imèr, in località Cappucetto rosso, e sale con decisione ai bordi della forra vertiginosa della Val Noana, si inerpica per boschi di faggio e supera la cascata del Saltón fino a portarsi ai pascoli del Piano Grande dove è situata la chiesetta.

Alpe di Vederna - Album fotografico dell'escursione


domenica 28 ottobre 2007

Lo Spirito del Bosco

“Quello che mi interessa della montagna non sono le vette, le cime, il grado di difficoltà, o la possibilità di stabilire un record, ma bensì quella catarsi, quel rinascere che avviene in coloro che la vivono nella sua forma essenziale, minima, elementare, primordiale.”

Questo, in poche parole, il pensiero che ieri sera Mario Martinelli ha espresso presentando le sue opere e in particolar modo “ Lo Spirito del Bosco” ed. la grafica, Trento 2007.


Immediato il collegamento alle parole e ad alcuni scritti di Mauro Corona.
E come nel libro “Le voci del Bosco” di Corona, anche Martinelli nel “Lo Spirito del Bosco” si rappresenta in primo piano nella copertina del suo libro.
Ma le similitudini finiscono qui.

Così mentre nei libri di Corona troviamo soprattutto la durezza e l'asprezza della vita nelle impervie valli delle montagne friulane, dove un'opprimente inquietudine sembra sempre attendere le persone ad ogni angolo di via, un'ombra lunga portare alla malinconia e spegnere la grinta, un male oscuro spezzare ogni sogno, i libri per Martinelli sono solo un pretesto per raccontare la montagna con gli occhi e la voce di un montanino (come lui ama definire coloro che vivono in montagna).

Le righe che Mario annota sui suoi quaderni sono degli scritti leggeri che non hanno alcuna ambizione letteraria ma la sola finalità di esaltare la vita di montagna nelle sue dimensioni più semplici: la voce del bosco, il silenzio delle cime, la relatività del tempo, la cultura della memoria.

Per Mario l’esperienza della montagna non va vissuta come una ossessione di tipo sportivo o peggio ancora come una lotta superomistica ma, al contrario, come via per il superamento dei limiti della condizione umana, come compimento interiore di un processo personale di rinascita che ha bisogno per espletarsi di tempo e silenzio.
E’ necessario allora, come dice Mario, fermarsi ad ascoltare quella piccola voce silente che è dentro ognuno di noi, ma che, come spesso accade, è soffocata dal rumore, dagli impegni e dalle attività pressanti di ogni giorno.
Così contro ogni deleterio turismo di massa, contro ogni banale ed estetizzante amore per la natura e contro ogni frivolezza snobistica, “la montagna deve insegnare il silenzio, disabituare dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle esuberanti effusioni”.
La montagna deve insegnare la “castità della parola”

Citando Julius Evola e le sue “ Meditazioni delle Vette” (ed. Mediterranee, 2003), Martinelli ha chiuso così una serata davvero speciale in un luogo altrettanto speciale, come Lui stesso ha sottolineato.

le foto sono pubblicate per gentile concessione dell'autore.

lunedì 22 ottobre 2007

Autunno e i cibi della memoria

Oggi è il primo giorno in cui sento veramente l'autunno.
Fino a qualche giorno fa le temperature erano quelle del mese di settembre e le zanzare la facevano ancora da padrone.
Questa mattina un cielo bigio con qualche gocciolina di pioggia, che ti inumidisce fino dentro all'anima, mi costringono a prendere atto (controvoglia) che l'autunno ha oramai spodestato l'estate.
E molto di più che le altre stagioni, l'autunno si accompagna a sapori che hanno il potere di evocare in noi ricordi sopiti, a cibi legati a precisi momenti della nostra infanzia, a istanti particolari trascorsi con persone care che ci hanno lasciato o che molto più semplicemente ci mancano.

Uno dei cibi d'autunno particolarmente cult, oltre alla castagna di cui ho già parlato, è la zucca.
Ho imparato ad apprezzare il suo sapore dolce, di una dolcezza naturale, grazie a mio padre.
Ricordo bene che per incuriosirmi descriveva la zucca nelle sue svariate e strane forme con poche parole e come se fosse cibo degli Dei.
Nelle sue solitarie battute di caccia autunnale me ne portava qualcuna, sempre diversa, ogni qualvolta incrociava nei suoi percorsi tra le valli e le colline qualche orto o campo ben fornito. La cucinava poi, insieme alle immancabili caldarroste nel ponte dei morti.

La zucca appartiene alla famiglia delle cucurbitacee, come l’anguria, ed è un frutto arrivato dalle Americhe grazie ai viaggi del XVI secolo.
Innumerevoli sono le specie coltivate, alcune commestibili, altre allevate a scopo ornamentale; sotto la spessa buccia, la polpa si presenta di un vivo giallo-arancio, e viene utilizzata in cucina previa cottura.
Se vogliamo cercare un vino in abbinamento alle nostre ricette dobbiamo fare una considerazione preliminare legata alla composizione che è in gran parte costituita da acqua (circa l’80 %), quindi grassi (circa 9%), carboidrati (circa 8%)e proteine (circa 3%) per un apporto calorico di appena 10 Kcal per 100 grammi di prodotto edibile.
Ciò suggerisce che la zucca piuttosto che essere consumata in quanto tale si presta come ingrediente di una preparazione, tra l’altro un ingrediente versatile visto il suo contenuto in zuccheri semplici inferiore a quello degli altri frutti. La possiamo ritrovare quindi nel pane alla zucca, quale ingrediente principale di un risotto, ma anche nella preparazione di un dolce.
Con la ricetta presentata potremmo pensare per l’abbinamento ad un vino bianco che esprima profumi intensi di frutta ma anche delicati, sapido per contrastare la tendenza dolce della preparazione, ma dotato di buona morbidezza...........
Gewurztraminer Kolbenhof 2006 - Hofstatter


RISOTTO di ZUCCA al profumo di TARTUFO

320 gr di riso carnaroli o Baldo
250 gr di polpa di zucca,
una cipolla, 8 dl di brodo vegetale,
mezzo bicchiere di Gewurztraminer Kolbenhof,
un cucchiaino di affettato di tartufo Savini,
50 gr di burro, grana padano, prezzemolo
sale e pepe q.b.



giovedì 18 ottobre 2007

I Metati della lucchesia

Da qualche mese, dopo un accurato recupero, è di nuovo possibile ripercorrere i vecchi sentieri e le mulattiere che intersecano il borgo medioevale di Sillico in Garfagnana (provincia di Lucca).
Tra i vari percorsi recuperati uno in particolare ha stimolato la nostra curiosità:
Il sentiero dei Metati
Si parte dalla piazza del paese e attraverso estesi boschi di castagni secolari si arriva ai metati dove ogni anno le castagne, seguendo un antico procedimento, si trasformano in farina.
Il Metato è una costruzione rustica eretta nel luogo di raccolta delle castagne.
Talvolta, come sull'Appennino Pistoiese e in Garfagnana, il metato era parte integrante dell'abitazione: sostituiva la cucina ed era luogo di incontro, in quanto vi si tenevano le veglie.



Dopo la raccolta le castagne sono poste a seccare sul canniccio o sulle cannaiole, cioè su una impalcatura costituita da assi di legno ravvicinate o da canne a cui il focolare della cucina assicurava un calore costante.
Una volta seccate, le castagne vengono sgusciate con una energica battitura che tritura i gusci dentro robusti sacchi o in un apposito recipiente detto bigoncia.
In fondo alla valle dove scorre il fiume che muove ancora le grosse macine di pietra dei mulini, confluiscono, dai numerosi metati sparsi nei boschi, le castagne secche per trasformarsi in "farina di neccio".




Pascoli ricorda un:
"metato soletto in cui seccasse a un fuoco dolce il dolce pan di legno: sopra le cannaiole le castagne cricchian, e il rosso fuoco arde nel buio."
(Il ciocco dai Canti di Castelvecchio,)





Dal medioevo fin quasi ai nostri giorni la castagna ha costituito la base del nutrimento delle popolazioni della montagna, come dimostrano i numerosi interventi legislativi succedutisi nei secoli, relativi alla tutela e alla regolamentazione dello sfruttamento dei castagneti.
Gli Statuti di Gavinana del 1540, ad esempio, prevedevano che la raccolta delle castagne da parte del proprietario terminasse col mese di novembre, dopo di che i poveri potevano andare liberamente a raccogliere i frutti che restavano.


Su questi sentieri Ludovico Ariosto ha più volte incontrato i banditi del Sillico, capeggiati dal rinomato "Moro del Sillico".
Nelle sue "Lettere dalla Garfagnana" egli descrive la bellezza della natura ma anche il disagio che provò nel governare una terra "di lupi e di briganti".

Oggi i sentieri del Moro compiono percorsi ad anello partendo ed arrivando nella piazza del Borgo di Sillico, permettendo di godere a pieno della natura, della storia e degli indimenticabili panorami che questo territorio dispensa generosamente ai suoi frequentatori.


INFO:
I Sentieri del moro
la locanda del moro

mercoledì 10 ottobre 2007

Autunno

C'è un tempo per progettare e un tempo per agire,
un tempo per meditare e un tempo per ricapitolare le cose fatte.
In questo senso l'Autunno è sicuramente il periodo migliore per riflettere e meditare.

I colori, i suoni e gli odori del bosco e dei campi ti conquistano in una dolce malinconia, e ai piedi di un grande faggio cerchi un luogo dove accucciarti per meditare sulla vita che corre via lasciandoti come dono i ricordi più dolci di tante stagioni oramai passate e che ora diventano preghiera di ringraziamento.



"Le foglie degli aceri montani e dei faggi prendono la luce dell'ambra e la brezza del mattino le toglie una ad una adagiandole al suolo.

I sorbi dalle rosse e lucenti bacche sono irresistibile richiamo alle cesene e ai tordi, mentre con le prime piogge fredde arrivano anche le beccacce.
Nei boschi gli ultimi funghi sono i cortinari viola e gialli, l'agarico nebbioso. Qualche raro porcino cresciuto con l'ultima lunazione d'autunno è golosamente ricercato dalle arvicole e dagli scoiattoli.
Il sottobosco emana odori di legni marcescenti, di muschio, di funghi e di bacche appassite....
E' il momento magico del bosco, dei silenzi e della albe nebbiose, dei colori smorzati verde-bruno-giallo in tante tonalità che a tratti una luce misteriosa rende evidenti.
Certe volte ti fermi ad ascoltare il campanello e poi il trotto di un cane del cacciatore solitario che passa, si allontana e svanisce dentro il bosco.

Tra i possibili modi di cacciare, questo d'autunno - con la pioggia e con un cane in luoghi che ben conosci, con un fucile che senti tua continuazione, e i ricordi che ti accompagnano - ti fa intensamente partecipare ad un mondo che senti esclusivamente tuo, che ti aiuta a capire le stagioni della tua vita che nessuno mai potrà rubarti."

Mario Rigoni Stern, Stagioni, Einaudi ed.




ps. una dedica particolare ad una amica che domani compie gli anni: un bicchiere di terre alte per un giorno speciale

martedì 9 ottobre 2007

Senza Orario Senza Bandiera


Questa settimana ha preso avvio la III° Rassegna di
"SENZA ORARIO SENZA BANDIERA" ,
organizzata dalla Comunità Montana dall'Astico al Brenta (in terra vicentina), con un programma di altissima qualità sia per i protagonisti che per le imprese documentate.

Il titolo della Rassegna di quest'anno " Confini e Sconfinamenti" vuole significare e sottolineare una condizione di sofferenza dell'umanità che vive nelle Terre Alte, sia quelle di casa nostra sia soprattutto quella del cosiddetto Terzo Mondo.

Vi posterò di volta in volta gli eventi che ritengo più significativi e più vicini allo spirito di questo Blog, con la speranza che gli organizzatori non me ne vogliano per questa scelta del tutto personale e arbitraria all'interno di un programma che reputo straordinario.

Il primo appuntamento è


con Ivo Rabanser un giovane alpinista gardesano ammesso a far parte del Club Alpino Accademico Italiano a soli 23 anni.

Incuriosito dai racconti d'avventura del nonno materno scopre già da adolescente la sua passione per l'arrampicata, interessandosi anche ma soprattutto alla storia e alle vicende che animano il mondo della montagna.

Dopo la scuola d'Arte esercita il lavoro di intagliatore nel legno, mentre il tempo libero è dedicato tutto all'alpinismo.

L'alpinismo di Rabanser è da un lato saldamente legato alle radici storiche e tradizionali dell'arrampicata e dall'altro proteso in una ricerca che lo spinge senza tregua a ricercare scoprire e modellare nuovi itinerari esteticamente molto belli tra le pieghe della montagna.








nella foto
Ivo e Chiara sul Campanile di Val Montanaia
(30 ottobre 2005)

venerdì 5 ottobre 2007

Mauro Corona


La passione per la lavorazione del legno Mauro Corona l’ha ereditata nella sua valle dove è situato il paese natio: Erto. (.......il ricordo corre subito al disastro del Vajont)

Enormi ammassi di trucioli, l’odore inconfondibile del legno che prendeva forma così il bambino Mauro Corona osservava il nonno paterno che con abile manualità creava cucchiai, ciotole e altri svariati utensili. S’intagliava il legno per necessità, gli oggetti creati si vendevano, si sopravviveva con il mercato ambulante.

Abbracciato alle sue montagne, figlio delle terre alte,
Corona fa rivivere le immagini di un passato ormai già segnato dall’oblio.
Ora è considerato uno dei migliori scultori del legno d'Europa.


Ma il suo fascino, sicuramente non estetico, lo deve molto anche ai suoi libri, tutti autobiografici (come per la maggior parte degli scrittori di montagna) e in cui scrive storie di persone vere, personaggi che sembrano usciti dal legno e dalla pietra,
folli ed eroici, sobri e bevuti, ospiti assidui delle panche di osteria.
Sono spaccapietre e carbonai, streghe e boscaioli, venditori ambulanti di ciotole e mestoli di legno, bracconieri e cacciatori, bevitori impenitenti, selvatici e soprattutto violenti, ma facili alla commozione come fanciulli.
Sono spiriti dei boschi che conoscono il linguaggio delle foglie e del vento, anime inquiete che popolano le valli, i burroni, gli anfratti più nascosti della montagna.


Ad ogni ritorno d’autunno gli alberi lasciano cadere le foglie e allora Corona smette i panni del boscaiolo e non taglia più.
Lascia cadere il silenzio nel bosco, perché gli alberi sono stanchi, sfiniti dalle carezze di bizzarre primavere e torride estati.
Hanno sopportato pazienti, temporali, venti improvvisi e violenti e il sole di mezza estate. Ora hanno voglia di riposare, riflettere e apprestarsi all'inverno.



martedì 2 ottobre 2007

Terre Alte di Livio Felluga



Terre Alte nell'intento di evidenziare tutti i segni dell'uomo in ambienti montani che conservano testimonianze delle molteplici attività tradizionali,
delle antiche forme di vita e della cultura alpina,
non poteva non rendere omaggio ad uno dei più prestigiosi vini bianchi italiani che, non per diletto, ma per una consonanza di intenti, porta proprio il nome di .............. Terre Alte.



Terre Alte nasce nel 1981 ed è da considerarsi uno dei migliori vini bianchi italiani.
L'armonico assemblaggio di uve Tocai Friulano, Pinot Bianco e Sauvignon, coltivate a Rosazzo negli storici vigneti delle Terre Alte, crea un vino elegante e ricco, dagli intensi profumi fruttati e floreali.

E' un vino di grande struttura e con l'invecchiamento acquisisce un'evoluzione terziaria di notevole complessità.


Riconoscimenti:
"Duemilavini 2007" - A.I.S.:"5 grappoli"
"Vini d'Italia 2007" - Gambero Rosso Slow Food: "3 bicchieri"

"I Vini di Veronelli 2007" - Veronelli Editore: "3 stelle super"
"I Vini d'Italia 2007" - Le Guide de l'Espresso:"5 bottiglie"

Per un approfondimento


Terre Alte



Terre Alte

" Su un foglio di carta, trovato chissà come, con meticolosità e pazienza, disegnai la casa che mi sarei costruito al ritorno. Il luogo che avevo scelto era lontano da altre abitazioni, in un bosco che conoscevo molto bene e all'incrocio di due carrarecce, su un piccolo rialzo."

Mario Rigoni Stern, Amore di confine, Einaudi ed.





Le Terre Alte illustrate in questo Blog sono come quelle che fin da ragazzo sognavo sulle pagine dei viaggiatori, alpinisti e scrittori del passato, siti intatti e segreti che hanno sempre alimentato la mia fantasia.

Ma sono anche e soprattutto quel particolare ambiente alpino così ben dettagliato da Mario Rigoni Stern non solo nei tratti del paesaggio ma anche e soprattutto in quel senso del percepire la vita e la storia che solo chi ha vissuto nelle Terre Alte sa raccontare.

Ambienti naturali poco frequentati e a volte selvaggi, sfuggiti a un destino di distruzione o finora risparmiati da un intenso sfruttamento turistico, le Terre Alte sono siti intatti e segreti che alimentano ancora oggi la mia fantasia.

lunedì 20 agosto 2007

Cima di Cece

 "Sono un pò stanchino":
così si esprimeva Forrest Gump dopo la sua corsa durata più di tre anni attraverso gli Stati Uniti d'America (in lingua originale: "I just felt like running").

Le stesse parole, senza alcuna pretesa di citazione cinematografica, mi sono uscite dalla bocca sabato, dopo questa lunga traversata durata 9 ore.


Il punto di partenza è il parcheggio di malga Valmaggiore a cui si perviene dal centro di Predazzo seguendo le indicazioni.
Il primo tratto che segue il sentiero CAI 335 serpeggia all'interno di un bosco misto con prevalenza di abete rosso, ma con presenza di ontano verde, qualche rara betulla e gli onnipresenti noccioli.
 


Si esce dal bosco a quota 1900 superando un dosso di origine morenica e si oltrepassa il laghetto di Valmaggiore a quota 1.910 (che nella cartografia topografica anche recente viene comunemente definito come laghetti ).

"è così che la strada si spiana e diventa visibile la via da percorrere.
Solo fermandosi, aspettando che i dubbi trovino soluzioni e
si sciolgano gradatamente senza forzature, senza fretta, senza decisioni avventate.."


Con passo lento e senza fretta perché la strada è lunga si arriva così dopo quasi due ore di cammino alla forcella Valmaggiore a quota 2.178.
Di lato troviamo il bivacco dedicato a Paolo e Nicola.
Costruito nel 1974 in ricordo di Paolo e Nicola di Predazzo deceduti sul Gruppo del Sella il 30 giugno di quell'anno è stato recentemente ricostruito nel 2011 dai volontari del CTG "Lusia". 
A distanza di 37 anni dalla sua costruzione il bivacco è stato demolito e ricostruito con un piccolo ampiamento che ha permesso la realizzazione di due stanze.
Una cucina con una nuova stufa in sostituzione di quella che aveva subito un principio di incendio e con 3 posti letto e un'altra stanza con sei posti letto a castello.
Bivacco isolato termicamente e con finestre con doppi vetri.
La legna è recuperabile lungo il sentiero di avvicinamento grazie al lavoro dei volontari del CTG di Predazzo.


Dopo una breve sosta riprendiamo il cammino e abbandonando il segnavia cai 335 che scende verso Fossernica seguiamo con direzione est il sentiero cai n. 349.
Nel frattempo il sole è sparito e tira un vento freddo.
Ci copriamo per bene e ci dirigiamo verso Cima Cece passando per una vecchia strada militare.
Nella foto si riconoscono chiaramente le lastre di pavimentazione del sentiero ritagliate e sistemate al tempo della guerra dagli austro-ungheresi.

Fa sempre un certo effetto camminare su queste mulattiere lastricate con sforzi immani, sudore e sangue di uomini e muli. Grotte e postazione di tiro, all’interno delle quali sembra ancora di sentire il respiro di quegli uomini.
Ora ampi squarci tra le nubi permettono di osservare chiaramente i profili dei denti di Cece e più avanti quello che è denominato il campanile.
Ma il sereno dura pochi minuti e il cielo si copre nuovamente di nubi basse.


Così saliamo qualche tornante che ci fa superare un dosso e alcuni gradoni giungendo cosi all'imbocco del Vallone di Cece.
La traccia risale il selvaggio vallone chiuso sul fondo dalla nostra meta e sulla dx dalle spettacolari sagome del Campanile di Cece e sopratutto dai Denti. Con faticosa salita si raggiunge un panoramico ripiano (quota 2.550 mt.).



I segnavia ci guidano adesso su un ripido ma breve canalino terroso.
All'uscita troviamo le indicazioni per la salita alla vetta (segnavia bianco rossi, non numerato). La traccia è un vecchio sentiero di guerra e non presenta difficolta' particolari, se non un minimo di esposizione nell'ultimo tratto, dove si sale i grandi blocchi che portano alla croce.


Purtroppo il meteo non ci permette alcuna foto dei panorami che si possono vedere da questa cima privandoci di assaporare con essi una gioia che ci avrebbe aiutato a lenire la fatica  e la stanchezza dell'escursione.
Torniamo sui nostri passi sino all'uscita del canalino dove abbandoniamo il segnavia n. 349 che ci avrebbe portati alla forcella di Cece per seguire, con l'aiuto del GPS cartografico, una linea ideale che, tagliando per ripide pietraie ci permette di scendere rapidamente al Lago Caserina di Cece.


Superato il lago e guadato il rio si giunge al Baito Caserina (2046 m.); lo superiamo seguendo sempre i segnavia, entriamo nel bosco e giungiamo in breve al Lago Cece (1879 m.). Ormai prossimi alla chiusura dell'anello, seguiamo sempre il 336, che prosegue dietro il bivacco nei pressi del lago. Sempre su mulattiera attraversiamo la radura del Campigol Grande sino a sbucare su una ampia sterrata; la seguiamo per poco sino a trovare le indicazioni per il ponte dove abbiamo parcheggiato l'auto



* Partenza: parcheggio Malga Valmaggiore (1.610 mt)
* Arrivo:  Cima di Cece (2.750 mt)
* Durata:  ore 9
* Distanza:  17 km
* Dislivello  1.290 mt